L’ultimo feudatario di Palagiano, il principe Guglielmo Romanazzi aveva un feudo nel nostro territorio di circa 1500 ettari.
Nel 1800, il feudo aveva una maggiore estensione rispetto a quella che fu interessata all’esproprio per conto della Riforma fondiaria, poiché comprendeva l’area della zona “Calzo” e alcune parti della “Comune” che, dopo l’Unificazione d’Italia, furono spezzettate e assegnate ai contadini.La parte del feudo rimasta fino al 1950, comprendeva: le masserie di Conca d’Oro, Chiàtone e Frassino Colombo alle quali si accedeva da via Lenne e dalla Litoranea Ionica; comprendeva anche le terre della “Vega”, tra i fiumi, Lenne e Lato, a Sud della Litoranea, a cui si aggiungevano parte dei possedimenti terrieri della ex “Locazione di San Marco dei Lupini”, a Nord del paese, verso la stazione ferroviaria.Le terre del feudo, pur essendo idonee ad ogni tipo di coltivazione, per la povertà di acqua, erano utilizzate nella maggior parte, per le semine dei cereali e dei legumi. Una stretta fascia che costeggia la Litoranea Ionica tra le masserie di Chiàtone e Frassino Colombo era coltivata a olivi che producevano olive della varietà, olearola (le olive “pizzute”).Nei pressi della masseria di Conca d’Oro c’erano 100 olivi che producevano le così dette “olive dolci”, riservate esclusivamente per l’olio da destinare alle riserve del principe.Pochi erano gli ettari coltivati a mandorleto e a vigneto.Il feudo costituiva la fonte di lavoro per centinaia di mezzadri, fittavoli e pochi salariati fissi.Questi ultimi si ritenevano dei fortunati perché, oltre al salario di L.150 al mese, negli anni della II Guerra Mondiale, avevano diritto a 1Kg. di sale, 1 litro di olio e uno stoppello (3,5Kg. circa) di fave, al mese; inoltre era loro consentito seminare un tomolo di legumi per la propria famiglia e un ettaro di cotone, del quale, un terzo della produzione era riservato al principe.Il principe cedeva in fitto o a mezzadria i terreni meno fertili, mentre i migliori li riservava per le semine che effettuava per proprio conto. Nel mese di ottobre veniva a Palagiano e dimorava nel suo palazzo, dove attualmente è sita la Banca di Puglia e Basilicata. Riceveva i fittavoli e i mezzadri e assegnava loro le terre che decideva di non utilizzare per proprio conto; a volte incaricava il suo amministratore per l’assegnazione.La spartizione e la misurazione delle terre per la semina, erano effettuate da uomini di sua fiducia, la misurazione veniva eseguita ancora coi “passi”.Prima di prendere possesso si pattuiva la quantità di denaro o di derrate da lasciare alla raccolta, nei magazzini delle sue masserie. I mezzadri avevano l’obbligo di dare metà del raccolto e l’intera quantità della semente impiegata nella semina, nel caso fosse stata anticipata.Il fitto costituiva la forma di conduzione più ambita dagli agricoltori, perché lasciava loro libertà di utilizzare il terreno, a proprio piacimento, per la durata del contratto.C’erano fittavoli, nelle terre della “Vega”, che le avevano da diversi anni; il terreno umido e pastoso, pur essendo pesante da lavorare, non veniva lasciato, perché idoneo per la coltivazione degli ortaggi.Un detto paesano diceva: “La terr d’ la Vé, la tìr e non g(e) vén, la qùutl e non g(e) chèd”: (“La terra della Vega è dura da tirare, si attacca alla zappa e non cade, perché vischiosa”).Nelle annate di siccità, quando i raccolti erano magri, i fittavoli si rifiutavano di pagare e rimandavano il pagamento a tempi migliori.Durante la raccolta delle olive, delle mandorle, dell’uva e dei cereali, il feudo pullulava di operai, sia di Palagiano, sia dei paesi vicini. La raccolta delle olive in particolare, si protraeva per diversi mesi e, le operaie che venivano dai paesi vicini, erano costrette a sostare nelle masserie, fino alla fine del raccolto, in condizioni disumane: i locali non avevano servizi igienici, il vitto era costituito essenzialmente da legumi secchi e pane duro; dormivano su pagliericci adagiati su brande sgangherate di legno o su letti di tufo; a fine settimana, una di loro raggiungeva il paese di provenienza, per provvedere al cambio della biancheria e al vettovagliamento.Le raccoglitrici erano in linea di massima giovanissime; si assoggettavano a quel lavoro per mettere da parte un po’ di soldi, per l’acquisto del corredo; le più anziane, madri di famiglia, venivano per incrementare i magri guadagni dei mariti.Era costume che l’ingaggio avvenisse diversi giorni o qualche mese prima della raccolta. A ciò provvedevano le “massare” che, per assicurare al padrone il numero necessario delle raccoglitrici, prendevano come pegno, “lu panarjdd”, che dava loro la certezza dell’ingaggio.In autunno, si trasferivano, dal Salento, i frantoiani, “li trapptèel”, come venivano chiamati nel nostro dialetto, per la lavorazione delle olive.Sostavano per quasi tutto il periodo dell’autunno e rientravano nei loro paesi, alla fine della raccolta delle olive, in inverno inoltrato.Nel frantoio ogni lavoro era eseguito a mano; solo le macine per la molitura erano azionate dagli animali, ma alcuni ricordano di aver visto alla sbarra delle macine, anche i frantoiani. Dopo la molitura essi provvedevano alla sistemazione della pasta delle olive, nei “fiscoli”[i] che opportunamente riempiti, si adagiavano sotto le presse, per la spremitura; estraevano l’olio che galleggiava sulla sentina, nei cilindri, col piattino concavo di zinco, operazione che doveva essere condotta con maestria, per evitare che la sentina si mescolasse all’olio che sarebbe risultato alquanto acido e asprigno.Provvedevano al trasporto dell’olio, con gli otri di pelle di capra, dal frantoio alle case degli acquirenti e allo scarico dei sacchi pieni di olive. L’olio prodotto si vendeva alle famiglie e ai commercianti all’ingrosso che giungevano dagli altri paesi. La sansa si trasportava negli oleifici di Taranto dove veniva impiegata per estrarre “l’olio di sansa”.Per tutta la durata della lavorazione delle olive, il frantoio era, per i frantoiani, non solo il posto di lavoro, ma anche la loro dimora. Dormivano su pagliericci in qualche angolo o stanza attigua al frantoio; al mattino sistemavano, nel camino, la pignatta di legumi che cuocevano a fuoco lento; avevano comunque il privilegio di mangiarli col pane raffermo inzuppato nell’abbondante olio che, di certo, non mancava e di lavorare al “caldo”.Dalle testimonianze rilasciate, quest’ultimo feudatario non venne ritenuto, dalla maggior parte della popolazione e dai suoi “vassalli”, cattivo. Certo ci fu con la maggior parte dei suoi fittavoli, mezzadri e braccianti un rapporto di sudditanza, ma non sempre servile; a detta di molti, furono più esosi alcuni fittavoli che tennero, per diversi anni, le sue masserie e alcuni suoi dipendenti.L’enormità delle sue ricchezze lo portava a trascurare il miglioramento fondiario tanto che il feudo, pur disponendo di sorgenti naturali, non aveva vastità arboree, né di oliveti, né di agrumeti né di vigneti.Durante l’estate, dopo la mietitura, la vasta piana del feudo appariva una immensa landa deserta interrotta dal verde della pineta, dalle strisce di verde lungo i lati dei fiumi Lenne e Lato e dallo specchio d’acqua della “Palude Fetida”. Sia la palude, sia le terre tra i due fiumi, sia la pineta costituivano la sua zona di caccia alla volpe e al cinghiale.Condizionò l’andamento del mercato locale determinato dalla vendita della sua enorme produzione di: olio, vino, legumi, grano, avena e legna, per cui, gli agrari locali, i piccoli e medi produttori dovettero adeguare le proprie vendite, a quei prezzi.Con gli agrari locali ebbe discreti rapporti.
Col clero locale mantenne rapporti diplomatici e non mancò di offrire i locali del suo “castello”, alle “Suore di Ivrea”, quando fu aperto, per la prima volta, l’Asilo per l’Infanzia.
Fonte: Memoria storica del nostro ‘900, di Michele Orsini