Le terre delle lame, in parte infeudate, in parte civiche, nei secoli scorsi, furono la risorsa della povera gente. Tutto quello che il terreno delle lame produceva era utilizzato, persino le canne e i giunchi: le canne per la lavorazione delle ceste, dei cestoni e “li panarjdd”, per la raccolta del pomodoro, coperture di abitazioni “li cannizz”, le stuoie per l’essiccazione dei fichi e del pomodoro; i giunchi usati per la lavorazione di corde, nasse per la pesca e “fiscoli” per la molitura delle olive.Nel periodo autunnale, le piogge gonfiavano i fiumi Lenne e Lato le cui acque, presso le foci, spesso intasate e ostruite dalle sabbie della costa e dai detriti trasportati dalle correnti, straripavano, allagando le terre circostanti che si impaludavano. Bisognava attendere la tarda primavera o l’estate, per pulire i canali delle paludi e coltivare le parti liberate dalle acque.Per il deflusso in mare dell’acqua che stagnava nelle paludi, ogni anno il Comune provvedeva alla pulizia dei canali e delle foci. In un deliberato dell’anno 1939 viene riportato quanto segue: “… si stipula contratto tra C. Michele e il Comune per il servizio di espurgo del fiume Lenne durante il triennio 1942/43…”.[i]In quelle zone regnava la malaria che tanti lutti causò alle nostre popolazioni.Le mareggiate provocavano l’infiltrazione dell’acqua del mare nei fiumi, dalle foci basse, fin nell’interno delle due lame, rendendo le acque salate, consentendo però il ricambio dell’acqua stagnante delle paludi e l’entrata e l’uscita dei pesci verso il mare.Il lavoro nelle lame era faticoso e poco redditizio; oltre alle acque che allagavano buona parte di quelle strisce di terra, per diversi mesi dell’anno, c’erano canne e erbe di ogni genere che crescevano abbondantemente, favorite dall’umidità del terreno, bisognava estirparle, quando le acque si ritiravano, per coltivare gli ortaggi.I paludari, per la scarsità dei proventi provenienti da quelle terre, coniarono il detto: «Terr de lème no cambn né chène né crstièn»; («Nelle terre delle lame non campano né cani né persone»).Quelle terre dette della “Comune”, (“la kmmun”), terre del Comune, assegnate ai contadini di Palagiano, appena dopo l’Unificazione d’Italia, rese fertili dal loro lavoro assiduo, offrivano comunque, l’indispensabile per il sostentamento delle loro famiglie.Nel periodo in cui le terre erano invase dalle acque, i paludari si improvvisavano pescatori, calavano le nasse lungo gli argini dei canali e dei fiumi o pescavano col mazzetto dei lombrichi: anguille, carpe, tinche, granchi e cefali. Questo tipo di pesca viene praticato ancora oggi, ma solo per diporto.Nella foce del fiume Lenne, si pescavano vongole in abbondanza, con le valve rigate simili a noci di mare; bastava tuffarsi a qualche metro dalla riva per risalirne con le mani colme, in gergo palagianese venivano chiamate, “juvèl”.Una particolare pesca era quella delle rane, nei canali delle paludi, in primavera e in autunno; quando la pesca era abbondante, si vendevano per le vie del paese.Vi era chi riusciva a catturare nelle paludi, sanguisughe, vendute sia nella locale farmacia tenuta dal Dott. Francesco Scarcella, sia nelle farmacie dei paesi vicini, sia in quelle di Taranto, venivano usate per curare tumefazioni e come salasso.Le acque che stagnavano nei fossi e nei canali delle paludi, come già detto, erano il regno delle zanzare e delle mosche che portavano tifo e malaria; i più colpiti da queste malattie oltre i paludari, erano i pastori e il personale che sostava nelle masserie, ma non mancavano casi di infezioni nello stesso paese.Furono colpiti da questo morbo, oltre alla nostra, le popolazioni dei paesi della fascia Ionica, e quelle delle coste basse dell’Adriatico e del Tirreno, in particolare quelle del Lazio, della Toscana, del Veneto e la parte della costa pugliese adriatica da Margherita di Savoia a Manfredonia.Alcune di quelle località portano nomi di morte, come la “Palude fetida” più comunemente detta: “Qui si muore”, nei pressi del fiume Lato e “Alma Dannata” nella fascia adriatica, tra Trinitapoli e Manfredonia, nel Tavoliere di Puglia.Per la malaria non c’erano farmaci, l’unico rimedio era il chinino che, preso con sistematicità, dava una buona sicurezza. Non mancarono comunque casi di morte.Un colpo decisivo alla lotta alla malaria, fu dato dalle opere di bonifica, con la costruzione di canali che consentirono il deflusso delle acque stagnanti, verso i fiumi e, da questi, al mare.Furono creati i Consorzi di Bonifica col compito di controllare costantemente le acque dei fiumi e il loro deflusso; nei pressi del fiume Lato, sulla fiancata sinistra, fu eretto un alto argine per il contenimento delle acque e un impianto di idrovore per il sollevamento delle acque stagnanti.Nel periodo del Fascismo, quando “l’Autarchia” impose lo sfruttamento di ogni risorsa nazionale del territorio, anche le parti più impervie delle lame furono sfruttate per la piantagione del cotone e degli ortaggi.In quegli anni, il cotone costituì una discreta fonte di guadagno per gli agricoltori, essendo richiesto sia dalle fabbriche della Puglia, sia da quelle del nord d’Italia; Putignano era il paese più vicino a noi che aveva filande e tintorie e assorbiva quasi l’intera produzione locale.I fiumi e i canali erano anche frequentati dagli artigiani che andavano a pescare quando il lavoro scarseggiava o nelle giornate libere.Sui fianchi delle lame, meno soggetti all’allagamento, furono piantate piccole fasce di agrumi a terrazzo; per la loro irrigazione si usavano le sorgenti di acqua freatica che scaturivano naturalmente. Nei periodi della raccolta, spesso i prodotti venivano portati su, per i costoni, a spalla, fino alle stradine dove era possibile l’accesso ai carri.I canneti e le giuncaie che occupavano buona parte delle lame furono eliminati con l’avvento dei mezzi meccanici.Le quote di quelle terre sono ora coltivate a: oliveti, agrumeti, vigneti e orti. Vista dall’alto, la “Lama di Lenne” appare una lunga fascia di verde.La sorgente di “Calzo”, la maggiore tra quelle che alimentano il Lenne, ha ridotto sensibilmente il suo apporto di acqua in questi ultimi anni.Una tale risorsa che per secoli ha dissetato la nostra popolazione e favorito la produzione agricola, rischia di perdersi completamente nel degrado ambientale in cui si trova. Occorre intervenire tempestivamente per il suo recupero, per ridare la fonte ai cittadini e continuare a utilizzarla come nel passato.

La stessa sorte è toccata alle acque della sorgente di Chiàtone, a qualche chilometro dalla chiesa di campagna della Madonna della Stella.

 

 

  Fonte: Memoria storica del nostro ‘900, di Michele Orsini