Il 1900 era iniziato con la tragica morte del Re Umberto I avvenuta il 29 luglio; fu l’inizio di una serie di avvenimenti che avrebbero sconvolto la vita delle popolazioni nostre e del mondo e modificato l’assetto politico di molte di loro. Caratterizzarono la prima metà del secolo: le due Guerre Mondiali, la Colonizzazione, il Fascismo, la Guerra di Spagna, le Leggi Razziali, la Sconfitta della Seconda Guerra, l’Occupazione delle truppe alleate, la Resistenza e l’avvento della Repubblica.La nostra comunità, per la morte del Re non poté fare altro che ricordarlo, con una corona di alloro e l’esposizione di una bandiera nuova comprata per l’occasione. L’anno successivo, per l’anniversario della morte del Re, fu organizzato un “Pellegrinaggio Nazionale al Pantheon”, a Roma, per rendere omaggio alla tomba del Re Umberto; il nostro Comune inviò una sua rappresentanza.All’inizio del secolo la Casa comunale di Piazza Vittorio Veneto aveva solo la parte prospiciente la Piazza.Il Consiglio comunale era così composto:
Sindaco |
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Natale |
Michelangelo |
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Consiglieri |
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Caprioli |
Nunzio |
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Carpignano |
Michele |
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De Florio |
Giuseppe |
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Di Roma |
Pietro |
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Fago |
Angelo |
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Franco |
Federico |
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Gisonna |
Fedele |
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Grassi |
Donato |
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Licomati |
Francesco |
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Luisi |
Michele |
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Masella |
Pasquale |
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Masella |
Rocco |
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Masella |
Salvatore |
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Montanariello |
Rocco |
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Natale |
Antonio |
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Natale |
Carmine |
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Ottomaniello |
Saverio |
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Sorace |
Serafino |
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Sinisi |
Vito |
Assessori |
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Licomati |
Francesco |
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Montanariello |
Rocco |
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Natale |
Antonio |
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Sinisi |
Vito |
Dal Comune di Palagiano e dalla locale caserma dei “Reali Carabinieri”, dipendeva anche la frazione di Palagianello, allora non Comune.Rappresentavano la frazione, i consiglieri comunali: Carpignano Michele, Fago Angelo e Masella Salvatore.Palagiano dipendeva dalla provincia di Lecce, faceva parte del Circondario di Taranto e dipendeva dalla Pretura mandamentale di Mottola.Palagianello riprenderà la sua autonomia comunale nel 1907, con grande gioia dei suoi abitanti e, credo, dei nostri amministratori che si liberavano dal peso economico della frazione.Taranto diventerà provincia nel 1923 e, finalmente saranno alleviati i disagi dei cittadini che, per risolvere i propri problemi, dovevano recarsi nella lontana sede di Lecce, con i mezzi precari di allora.La frazione di Palagianello costituiva un peso non indifferente per il nostro Comune che doveva sopportare le spese per i servizi e la scuola, in particolare, non solo per il nostro paese, ma anche per la frazione; qui di seguito si riportano alcune spese pagate dal Comune, per la frazione, alla fine del 1900. In data 31/12/1900 per Palagianello risultano spese:“L.24 per l’uso dei fanali nella frazione dei mesi di novembre e dicembre” delibera N.6;“L.35 … per estrazione acqua da un pozzo … ” delibera N.11;“L.102 … riempimento di terra cimitero di Palagianello … ” delibera N.14;“L.127,40 … medicine somministrate ai poveri di Palagianello … ” delibera N.3;“L.15 … sostenute per il defunto Vincenzo … di Palagianello”, delibera N.35;“L.330 … lavori eseguiti ai pozzi pubblici di Palagianello”, delibera N. 30;“L.67 … lavori alle scuole di Palagianello … ” delibera N.30;“L.320 … lavori di adattamento al Cimitero di Palagianello … ”. La popolazione di Palagiano, al censimento del 1901, contava 4236 abitanti, era cresciuta di solo 435 anime, in 20 anni, dal censimento del 1881 che registrava una popolazione di 3801 abitanti.La crescita era rallentata dalla mortalità infantile provocata dalle scarse condizioni igieniche; l’acqua si attingeva dai pozzi e dalle cisterne comunali e la fognatura era inesistente, le malattie erano inevitabili.I servizi resi dal Comune: fornitura di acqua, smaltimento dei liquami, servizio scolastico, assistenza ai poveri, illuminazione a petrolio e a olio, erano ridotti proprio allo stretto necessario.Per buona parte del secolo, nel nostro paese, come nei paesi vicini, la vita procedeva lenta; ci si muoveva essenzialmente a piedi o con gli animali impiegati sia nel lavoro, sia nel trasporto dei passeggeri da un paese all’altro, sia nel trasporto delle merci. Il tempo era scandito dai rintocchi delle campane che annunziavano il “mattutino”, il “mezzogiorno” e il “vespro”.Le strade erano silenziose, ogni tanto si udivano i rumori provenienti dalle botteghe degli artigiani, il canto delle ragazze rimaste in casa e l’invito dei commercianti ambulanti a comprare le merci.La popolazione, per la maggior parte, riusciva a sbarcare il lunario, alla meno peggio, ma c’erano anche molte famiglie povere sia in Palagiano, sia nella frazione di Palagianello, bisognose di tutto, tanto da richiedere, con frequenza, l’aiuto del Comune.In quei primi anni del secolo, la Scuola dell’Obbligo dipendeva, in toto, dal Comune, sia per i locali e le suppellettili, sia per le nomine dei maestri nominati dal Sindaco, sia per il pagamento degli stipendi; il Sindaco e i Consiglieri inoltre esprimevano i loro pareri sul comportamento degli Insegnanti.L’accesso alla vita amministrativa era riservato a coloro che erano in possesso di un titolo di studio e di proprietà, per cui pochi potevano accedere alle cariche comunali; dopo la I Guerra Mondiale, ai reduci, fu consentito di far parte delle Amministrazioni comunali, mentre le donne ne erano completamente escluse anche se in possesso di titoli di studio di corsi di Scuola Superiore. Potevano insegnare nelle scuole pubbliche, ma con un trattamento economico inferiore a quello degli insegnanti maschi.Vi era scarsa partecipazione alla vita pubblica comunale e nazionale a causa dell’analfabetismo, della penuria dei mezzi di informazione, della difficoltà di accesso alle cariche pubbliche per molti e per la mancanza di tempo che veniva occupato dal lavoro esorbitante.Le sedute dei Consigli Comunali, si tenevano solitamente di mattina, quando la gente era al lavoro. L’illuminazione a petrolio o a olio costava e non offriva, la sera, una adeguata illuminazione dei locali della sede comunale; lo stesso avveniva per le sedute della “Conciliazione” che si tenevano nei locali dell’ex convento.La stampa circolava solo nelle case dei pochi professionisti del paese, negli uffici comunali e in qualche sala da barba; persino gli annunci comunali, provinciali e nazionali, oggi affidati alla stampa e ai manifesti, venivano comunicati dal banditore comunale.
In quegli anni la nostra gente era essenzialmente dedita all’agricoltura, poco all’artigianato e al commercio.Nel settore agricolo abbondava il bracciantato poiché le terre da coltivare, di considerevole estensione, erano in mano a pochissimi proprietari terrieri e, in particolare, ai feudatari di Palagiano e Palagianello.La maggiore estensione del nostro territorio era in possesso del principe Romanazzi, mentre una considerevole fetta del territorio di Palagianello era tenuta dal Conte Caracciolo Stella.Abbondavano i fittavoli, i mezzadri e i braccianti che lavoravano le loro terre.La vita delle donne era molto dura, non c’era per loro divertimento, specialmente per le sposate. Il passeggio o l’uscita di casa erano limitati all’andata e al ritorno dalla chiesa, per la Messa domenicale o per le novene; attesissime erano quelle per l’Immacolata e per il Natale.Le donne di una certa età portavano abiti lunghi con corpetti, scialli e sciarpe per copricapo, con l’immancabile pettinatura con le trecce raccolte dietro la nuca. Dagli anni ’30 in poi iniziarono a portare vesti più corte.Gli uomini, nei giorni feriali indossavano pantaloni, camicie, gilè e giacche cuciti con tessuti a mano e calzavano scarpe chiodate artigianali.Più curati ed eleganti erano i vestiti degli impiegati, dei professionisti e degli artigiani.Gli scolari, di solito, non indossavano grembiuli; portavano: pantaloni lunghi, camicia e giacchetta e scarpe alte.Le scolare portavano giacche, gonne lunghe, calzettoni e scarpe basse.I giovani si sposavano molto presto, perché in casa si era in tanti e c’erano molte bocche da sfamare. Le ragazze oltre i venticinque anni, erano ritenute già zitelle: ci si sposava, dai sedici anni in poi.Il tempo del fidanzamento durava lo stretto necessario, per conoscersi e per terminare il corredo i cui capi, spesso, erano preparati dalle stesse ragazze che erano ritenute brave e idonee a sposarsi, quando erano capaci di saper cucinare, lavare, preparare il pane, cucire e sferruzzare.Ci si incontrava a casa della fidanzata, la sera, dopo il lungo lavoro, sotto lo sguardo vigile dei genitori o dei fratelli maggiori.D’estate, quando la calura del giorno cedeva il passo alla frescura della tarda sera, la famiglia sedeva davanti all’uscio di casa e, i fidanzati, di poco appartati, si scambiavano le loro brevi frasi d’amore sussurrate, appena percepibili, perché altri non le cogliessero e tanti sguardi più eloquenti delle parole!Alcuni giorni prima del matrimonio, a casa della sposa, si esponeva il corredo costato tanta fatica! Si invitavano i suoceri e il resto della famiglia dello sposo, i parenti, gli amici e, successivamente, il vicinato.Si esponevano e si contavano i capi di biancheria, i così detti “panni”: le coperte d’uso comune, quelle per le occasioni e le feste, di seta e di cotone tessute a mano con le frange di merletto o di pizzo, l’imbottita (“la buttit”), per l’inverno, gli utensili per la cucina, il braciere di rame ben lustrato col piede di legno, lo scaldino per scaldare il letto nelle gelide serate d’inverno, la coppia dei materassi tessuti a mano imbottiti di lana, il saccone per l’estate, da riempire con le foglie di granturco, i vestiti per le feste, per i giorni feriali e per il lavoro.Tutto questo, per dimostrare palesemente che s’erano rispettati i patti! Si, proprio così! Infatti, prima del fidanzamento, le famiglie concordavano la dote da assegnare ai fidanzati: biancheria, abiti, mobilio, il necessario per il lavoro e un eventuale bene immobile, per le ragazze.Poteva capitare che qualche inadempienza fosse motivo per mandare il matrimonio in fumo.Il fidanzato, da parte sua, confermava l’acquisto dell’abito per la sposa, per il giorno del matrimonio ed elencava quanto gli veniva assegnato dalla sua famiglia, specialmente le attrezzature per il lavoro, oltre al vestiario.Gli agricoltori ricevevano in dote, il cavallo con i finimenti nuovi, il carro da trasporto variopinto e gli attrezzi da lavoro.Gli artigiani ricevevano il necessario per aprire bottega.I poveri si accontentavano di “un cuore e una capanna”; contraevano matrimonio in modo semplice, spesso ricorrendo alla fuga di casa, “la scinnut” che si concludeva col matrimonio riparatore. Si ricorreva a tale espediente, quando il matrimonio era osteggiato dalle famiglie o quando non c’erano soldi per pagare l’abito per la sposa e il necessario per la festa.Il giorno delle nozze la sposa si recava in chiesa, in carrozza o a piedi.Se si andava a piedi, la sposa usciva di casa accompagnata dal padre, a cui seguiva il corteo degli invitati; le ragazze indossavano abiti lunghi di colore rosa e due damigelle precedevano il corteo portando due cesti di fiori.Dopo la cerimonia si ritornava a casa per il pranzo a cui provvedevano gli stessi familiari degli sposi o alcuni cuochi del paese.La sera, agli invitati che non avevano partecipato al pranzo, si offrivano dolci e bevande. Poche coppie partivano per il viaggio di nozze.Solo verso gli anni ’50, si apriranno alcune piccole sale da ricevimento per sposi.Gli artigiani si differenziavano dagli agricoltori e dai braccianti agricoli, non solo per il lavoro espletato in bottega, ritenuto meno umiliante e faticoso di quello agricolo, ma anche per la cura che ponevano nella persona e nel vestiario. I giovani che lavoravano in bottega erano sottoposti a un lungo periodo di apprendistato.Le sartine che andavano a bottega erano raffinate nell’abbigliamento; nella vita di relazione, erano più aperte e disinvolte, anche con i coetanei dell’altro sesso.Il bisogno delle braccia in campo lavorativo, nelle campagne e nelle botteghe, consentiva solo a pochissimi la continuazione degli studi oltre il corso di Scuola Elementare che, per molti, era un grande punto di arrivo e, non sempre, era portato a compimento, perché si andava a lavorare, sin dai primi anni della Scuola dell’Obbligo; così parecchi ragazzi venivano destinati ai lavori manuali, pur essendo in possesso di ottime capacità intellettive.Pochi venivano in possesso del diploma o della laurea il cui conseguimento costituiva, non solo il riscatto, dall’analfabetismo e dall’ignoranza, ma anche la liberazione dalla dipendenza delle persone così dette istruite e “civili”.La vita contadina, pur caratterizzando la nostra società, non era desiderata da tutti. La condizione servile di molti contadini faceva si che molti la rifiutassero, desiderando altre attività meno laboriose e, soprattutto più rispettose dell’uomo; tuttavia, poiché “il pezzo di terra”, poteva assicurare l’indispensabile al mantenimento della propria famiglia, il suo acquisto, sia pure con gravi sacrifici, era motivo di orgoglio per chi riusciva a venirne in possesso.Interi nuclei familiari si spostavano, già dalle prime ore del mattino, specialmente nei periodi delle raccolte, per lavorare, sia nel proprio appezzamento, sia in quelli degli altri.Le famiglie erano numerose e ai figli non si poteva assicurare più dello stretto necessario; l’alimentazione era carente di carne, mentre erano molto consumati i legumi e i cereali che non tutti però potevano avere.Accadeva spesso, in quelle famiglie, quando la mancanza di lavoro si prolungava per diversi periodi, che i genitori, con sommo dolore, pronunciassero la terribile frase: “Vè datt pen, figgh mi!” (“Vai a cercare pane per tuo conto, figlio mio!”).Iniziava così, quasi sempre precocemente, la vita lavorativa autonoma dei ragazzi, che offrivano le proprie braccia in piazza, nel “mercato del lavoro”, così frequente da noi fino a pochi anni fa, o emigravano nelle città del nord dell’Italia, o all’estero. Questa vita così dura temprava comunque i giovani che divenivano artefici del proprio avvenire, già da giovanissimi.
Gli anni delle due Guerre Mondiali furono un vero ostacolo al mutamento sostanziale delle condizioni di vita della nostra gente; in particolare, non si ebbe modo di ostacolare e combattere efficacemente l’analfabetismo e la povertà.
Fonte: Memoria storica del nostro ‘900, di Michele Orsini