Chiesa rupestre Santa Lucia
Caro Giovanni, tu sai che ho per te sincera amicizia e stima e non vorrei che la polemica sulle origini di Palagiano che profondamente ci divide ne minasse le basi, come potrebbe accadere se la polemica – legittima sul piano scientifico – s’incattivisse.
Nel tuo intervento ultimo su un giornale on-line di Palagiano, infatti, ho notato una piccola cattiveria di cui dirò, e, per una doverosa informazione dovuta ai Palagianesi, invierò questa lettera a entrambi i giornali on-line della Città.
La piccola cattiveria l’ho riscontrata quando tu affermi di aver letto nel mio volume di nove anni fa Società ed economia nei villaggi rupestri, che io avrei posto la fondazione di Palagiano al XVI secolo, mentre ora parlo di XIII-XIV secolo, per cui – con una certa malizia – affermi che abbiamo guadagnato alcuni secoli.
Ma un libro va letto intero, ed io a p. 117 scrivo che “verso il XIV o XV secolo fu possibile tornare a popolare la pianura che era stata invasa dalla palude” e a p. 118 che “tra XIV e XV secolo, quando si andavano spopolando i villaggi rupestri, una parte della popolazione [di Palagiano Vecchio] rioccupò la pianura, portandosi appresso il nome del villaggio”.
Dunque, è chiaro per qualsiasi lettore che io ponevo (e pongo) la fondazione dell’attuale Palagiano nel XIV secolo, anche se non escludo che qualche pioniere si fosse recato ad abitare la pianura che lentamente si liberava dalle acque della palude alla fine del XIII secolo o anche qualche momento prima, perché Roberto Palmisano pensava che lo spopolamento completo di Palagiano Vecchio si fosse verificato alla fine del XIII secolo, idea superata dalle ricerche in corso in quel villaggio, ove si sono rinvenute ceramiche di XIV secolo. L’esperienza di ricerca più che decennale che ho nella Val di Chiana di Chiusi mi ha insegnato che, nel Medioevo e non solo, esiste anche un’economia della palude, in piccole isole della quale, se non esistono paesi, esiste pure qualche capanna di pescatori o di chi – sfidando la malaria - sfrutta, per fabbricare cesti o contenitori, le erbe palustri. Economia povera, che non lascia tracce archeologiche significative, come appunto è nel territorio di Palagiano.
Economia della palude a parte, la prova regina della inesistenza dell’attuale Palagiano nei secoli che vanno dal V o VI fino al XIV è proprio nella mancanza assoluta di qualsiasi reperto archeologico. Quando tu me ne mostrerai anche uno solo (possibilmente non fluitato per le alluvioni che dalle colline si riversavano nella pianura, ma in giacimento primario) io sarò disposto a rivedere le mie posizioni che non sono campanilistiche ma si basano gelidamente sulle prove scientifiche.
La tua eroica campagna per negare l’esistenza di Palagiano Vecchio è certo degna di miglior causa: tu pensi che chi, nella minuta del documento cavense, ha scritto a chiare lettere “Si pone come lo castello (poi corretto in casale) quale al presente si chiama paliscianello, antiquo si domandava palisciano vecchio, come consta a quelli ne sanno” poi lo abbia cancellato perché non era vero. Ma questo è inaccettabile per chiunque abbia una qualche nozione di Diplomatica. La cancellatura (peraltro da verificare con cura sull’originale nell’intero contesto) puo’ essere stata deterninata dal fatto che, nel passare il documento in bella copia, si sia ritenuto inutile dare quell’informazione. Certo, l’estensore del documento aveva solide informazioni, da parte di quelli ne sanno, sull’esistenza di un sito chiamato Palagiano Vecchio, come ce l’avevano i Canonici di Massafra che possedevano la chiesa di San Donato “fuori dalle nura”, cioè nell’agro di Palagiano Vecchio e non in paese, come la cappella di San Donato in Palagiano Nuovo di cui è notizia nell’atto notarile che citi. C’è forse una ragione che ci impedisca di ritenere che chiese dedicate a San Donato fossero sia a Palagiano Vecchio che a Palagiano Nuovo? Chi poteva impedire ai devoti del Santo, emigrati da Palagiano Vecchio e fondatori di Palagiano Nuovo, di dedicare al loro Santo una cappella a ricordo della chiesa abbandonata nel villaggio di origine?
La storia, mio caro amico, va fatta tenendo presenti tutte le possibili sfaccettature delle vicende umane e avendo sacro rispetto dei documenti.
A proposito dei quali, tu citi ancora una volta un documento del 1050 che nessuno conosce e che tutti aspettiamo che tu pubblichi. Comunque, quel documento dimostrerebbe soltanto una cosa, che nel 1050 esisteva già un piccolo villaggio, Palagianello, scavato nella parte alta della Gravina, e diverso, quindi da Palagiano, che poi sarà detto Palagiano Vecchio, il grande villaggio rupestre esistente nel cuore della Gravina stessa. E quindi, anche il toponimo di Palaganello sarebbe di almeno due o tre secoli più antico della fondazione di Palagiano Nuovo. E sarebbe una prova documentaria di quanto, sulla base di dati archeologici, andiamo accertando nel corso delle nostre ricerche sulla topografia storica del vasto territorio occidentale della provincia di Taranto.
Parete Pinto
Non entro nel merito della tua ricostruzione sul tracciato dell’Appia, fatta ripercorrendo la strada da Venosa a Taranto, per poter adeguatamente ubicare la Statio ad Canales, che tu vuoi nel sito di Palagiano e Roberto Palmisano qualche chilometro più ad ovest. Per me la questione è irrilevante, perché, come oggi sulle autostrade, le stazioni di servizio non erano a distanze prestabilite, e ce ne potevano ben essere due, una dove la voleva Roberto ed una dove la vuoi tu, ed una delle due era quella di ad Canales. Ma ho l’obbligo di farti osservare che, se le distanze chilometriche da te verificate, con l’Appia che aggira il Mar Piccolo, sono valide per l’età repubblicana, non lo sono più per l’età imperiale, quando i romani avevano già costruito un ponte, proprio per consentire all’Appia di entrare in Taranto da ovest e non più da est, abbreviando quindi di molte miglia il percorso. E gli Itineraria, sia quello di Antonino che la più tarda Tabula Peutingeriana, rispecchiano la situazione della viabilità in età imperiale già abbastanza tarda, e quindi il calcolo delle miglia da te effettuato va doverosamente rivisto e forse dà ragione a Roberto.
C’è poi un’altra questione che ci divide. Tu annetti a quella statio il recinto di Parete Pinto, che per me (e molti altri) è pertinente, invece, ad un grande allevamento di bestiame. Tu insisti per una sterminata cisterna, ed alleghi come prova il fatto che quelle muraglie sono interrate di circa due metri, senza tener conto che questa è la situazione di oggi, non certo quella del I-II secolo, quando il recinto fu costruito. Ma proprio l’interramento di due metri è una riprova dell’impaludamento che durò quasi un millennio. Quella imponente coltre di terra fu depositata nel territorio oggi di Palagiano dalle alluvioni che impaludarono la pianura – nella quale la falda acquifera si era già per suo conto innalzata – dalla Tarda Antichità fino al XIII o XIV secolo. Questa semplice osservazione fa cadere la prova principale che tu adduci quando vuoi sostenere che Parete Pinto era una cisterna costruita per abbeverare assetate legioni romane. Ma ti sei chiesto mai perché una così enorme cisterna non esiste presso nessuna altra statio romana, dove pure le medesime legioni si fermavano, egualmente assetate, prima di giungere alla statio palagianese? Quanto poi al fatto che l’interramento è fuori e non dentro Parete Pinto, questo è dovuto al fatto che all’interno sono stati fatti scavi e la terra è stata portata via.
A parte le considerazioni di carattere strutturale, che hanno un loro non trascurabile peso. Le cisterne sono tutte coperte, sotto pena di avere acqua inutilizzabile per gli uomini. Io, che sono – come sai – un giramondo, conosco molte cisterne che occupano una superficie anche maggiore di quella (già enorme) di Parete Pinto: ma tutte sono coperte da un sistema di volte, perché era impossibile che a Parete pinto vi fosse un’unica, enorme volta che, se fosse crollata, avrebbe lasciato sul sito centinaia di metri cubi di materiali che nessuno ha mai visto e che avrebbero avuto bisogno di ingenti lavori per essere rimossi. Potrei citarti la grande cisterna Yerebatan (138x65 metri, quattro volte la superficie di Parete Pinto!) o quella Binbir Direk di Costantinopoli, le cui voltine sono sostenute da centinaia di colonne (trecentosessantasei colonne nella Yerebatan), ancora oggi perfettamente conservate e visitabili, la grande cisterna di Dara (un po’ più piccola di Parete Pinto) coperta da volte a botte – in parte crollate – per costruire le quali all’interno della cisterna esistono quattro o cinque muri longitudinali, distanti fra loro quattro o cinque metri, su cui insistevano altrettante volte.
Dove sono le decine di colonne, o di pilastri, o i muri necessari per coprire con volte Parete Pinto? O forse pensi che era coperto da un’unica immensa volta a botte, che avrebbe avuto l’impensabile altezza di oltre 18 metri? Ma i muri di Parete Pinto, relativamente esili (non li ho misurati, ma lo faremo insieme quando, con la buona stagione, tornerò a Palagiano ed andremo insieme a visitare quel monumento che per me è importantissimo per la storia economica del territorio) non avrebbero mai potuto reggere il peso e la spinta di una tale volta. Non parliamo, poi, della ancor maggiore spinta di una volta a sesto ribassato.
Queste sono le ragioni, scientifiche e tecniche, per le quali io non posso accettare l’idea che Parete Pinto fosse una cisterna, idea nata a Palagiano in epoca pre-scientifica, quando gli abitanti non avevano le cognizioni adeguate per spiegarsi la vera natura di quell’imponente manufatto.
D’altra parte, qualcosa del genere è accaduto a Massafra e altrove, dove alcune particolari grotte nei villaggi rupestri sono state credute “Farmacie” perché nei piccoli loculi allineati sulle loro pareti si credeva che “monaci erboristi” vi conservassero le erbe medicinali. Poi, l’esperienza fatta in Cappadocia, dove ancora in centinaia di grotte simili si allevano i colombi, la lettura delle pubblicazione di Guy Demenge, la lettura di pubblicazioni riguardanti grotte simili nell’Italia centrale, hanno convinto me (che ero stato sempre dubbioso sulle “Farmacie”) che anche da noi, nel Medioevo, quelle grotte servivano per l’allevamento dei colombi. Certo, c’è ancora qualche studioso locale che non ci crede, ma – sebbene in buona fede – è fuori dalla storia.
E a me sinceramente duole che una persona seria come te, che ha le risorse culturali e intellettuali per fornire importanti contributi al progresso della conoscenza, voglia rimanere – in buona fede – fuori dalla storia, solo perché si ostina a voler spiegare Palagiano soltanto con Palagiano.
Mio caro Giovanni, devi convenire anche tu che per spiegare le vicende anche di un piccolo centro, anche di Palagiano, occorre cercare i confronti anche molto lontano.
Io, per spiegare a me stesso e agli altri che le “Farmacie” erano colombaie son dovuto andare nel 1989 in Cappadocia. Tu, per spiegarti la vera natura di Parete Pinto, che non è quella della leggenda palagianese, rifletti – ti prego – sugli esempi di cisterne che ti ho indicato.
Caramente
Roberto Caprara